FILM: IL RITORNO ALLA REALTA' FISICA
Siegfried Kracauer
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 4 dicembre 2010
IL POVERO SIGNOR PEEL
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Un’arte particolare

Ma per darci l'esperienza della realtà fisica, i film debbono farci vedere quel che descrivono: esigenza così poco evidente di per se stessa da sollevare il problema dei rapporti del mezzo con le arti tradizionali.
Nella misura in cui la pittura, la letteratura, il teatro, ecc. implicano comunque la natura, non la rappresentano veramente. La usano piuttosto come materiale grezzo con cui fabbricare opere che pretendono all'autonomia. Nell'opera d'arte non rimane nulla del materiale grezzo in se stesso, o, per essere più precisi, tutto quello che ne rimane è modellato secondo gli intenti che vuole esprimere. In un certo senso, il materiale della vita reale scompare nelle intenzioni dell'artista. La sua fantasia creativa può essere infiammata da oggetti e avvenimenti reali, ma, invece di conservarli nel loro stato amorfo, li modella spontaneamente secondo le forme e le idee che evocano in lui.
E’ questo che distingue il pittore o il poeta dal cineasta; diversamente  a quest'ultimo, l'artista cesserebbe d'essere tale se rappresentasse la vita nella sua forma grezza, qual è resa dalla macchina da presa. Per quanto la sua tendenza possa essere realistica, il poeta o il pittore sopraffà più che non registri la realtà. Ed essendo egli libero d'indulgere alle proprie aspirazioni creative, la sua opera tende a essere un tutto con un significato. Il significato di un'opera d'arte determina quindi quello dei suoi elementi; o, viceversa, i suoi elementi hanno un significato in quanto contribuiscono alla verità o alla bellezza inerenti nell'opera complessiva. La loro funzione non è di riflettere la realtà, ma di darne un'interpretazione. L'arte procede dall'alto al basso. Dal punto di vista distaccato dei mezzi fotografici, questo si applica anche a opere che imitano la natura, invitano al disorganico, o, alla maniera del dadaismo, ostacolano l'arte. In un collage perfetto il brandello di giornale si trasforma da pezzo di realtà estranea in emanazione di un'«idea-concetto», per usare il termine di Eisenstein.
L'intrusione dell'arte nel cinema ne deforma le intrinseche possibilità. Se, per ragioni di purezza estetica, i film dominati dalle arti tradizionali scelgono di trascurare la vera realtà fisica, rinunciano così alle possibilità riservate al mezzo cinematografico. E se descrivono il mondo visibile dato, non riescono tuttavia a farcelo vedere, perché le inquadrature che ne danno servono unicamente per comporre quella che si può far passare per un'opera d'arte; il materiale tratto dalla vita reale in simili film perde dunque il suo carattere di materia grezza. A questa categoria appartengono non soltanto film sperimentali artisticamente ambiziosi - come, per esempio, Un chien andalou di Buñuel-Dalí - ma tutti gli innumerevoli film commerciali che, sebbene assolutamente privi d'arte, le pagano tuttavia quasi senza saperlo il loro tributo, seguendo le vie del teatro.
Non si tende qui a minimizzare la differenza tra Un chien andalou, ibrido di grande interesse artistico, e i soliti divertimenti teatrali presentati sullo schermo. E tuttavia il prodotto commerciale e l'opera dell'artista coincidono in quanto estraniano il mezzo dagli interessi che gli sono particolari. Paragonati, diciamo, con Umberto D. o con Le notti di Cabiria, i film teatrali medi e certi film dell'avant-garde d'un certo livello vanno messi insieme nonostante tutto ciò che li separa. I film di questo genere sfruttano, non esplorano, i fenomeni materiali che inseriscono; e non li inseriscono perché interessanti in sé, ma allo scopo di creare un tutto con un significato; additando questo insieme, ci riportano dalla dimensione materiale a quella dell'ideologia. Nel cinema l'arte è reazionaria perché  simboleggia il tutto, e sostiene così il persistere di credenze che «coprono» la realtà fisica in entrambi i sensi della parola. Ne risultano film in cui prevale l'astrattezza. La loro innegabile frequenza non dovrebbe però indurci a sottovalutare la presenza di film che respingono invece la «menzogna dell'arte»;1 e che vanno dai documentari - attualità o documentari puri e semplici - a ben sviluppati film a soggetto saturi delle aspirazioni creative dei loro autori. I film del primo gruppo, che non pretendono neanche di essere arte, seguono semplicemente la tendenza realistica, soddisfacendo così almeno l'esigenza minima di quello che è stato definito l'«atteggiamento cinematografico». Quanto ai film a soggetto, sono l'arena in cui si scontrano la tendenza realistica e quella creativa; ma in questi film la tendenza creativa non riesce mai a emanciparsi dalla tendenza realistica e a sopraffarla, come fa invece nei film teatrali. Si pensi al Potjomkin, alle comiche mute, a Greed («Rapacita»), a diversi film western e di gangster, a La grande illusione, ai capolavori del neorealismo italiano, a Los Olvidados, a Le vacanze del Signor Hulot, a Pather Panchali, ecc.: tutti quanti si fondano sulla forza suggestiva del materiale grezzo presentato dalla macchina da presa; e tutti sono più o meno conformi al detto di Fellini secondo cui un «buon film» non dovrebbe aspirare all'autonomia di un'opera d'arte, ma «contenere errori, come la vita, come la gente».2
Gravita il cinema verso film di questo tipo? Le loro caratteristiche salienti tendono comunque ad affermarsi in tutto l'insieme dei film e spesso dove meno ci verrebbe fatto di aspettarcelo. Più d'una volta accade che film per tutto il resto teatrali presentino una scena le cui immagini raccontano spontaneamente una storia propria, che per un attimo fuggevole fa dimenticare completamente quella principale. Di questo film si potrebbe dire che è mal costruito; ma il suo supposto difetto e in realtà il suo unico pregio. La tendenza verso i semi-documentari è in parte concessione alle virtù dei documentari drammatici. La composizione tipica dei film musicali riflette i rapporti precari, se non addirittura antinomici, che si verificano nella profondità del mezzo tra tendenze realistiche e creative. Più recentemente, si son fatti, o meglio ripresi, tentativi di distaccarsi dalla letteratura e dalla costruzione rigida delle storie, facendo improvvisare agli attori le loro battute. (Se poi simili tentativi introdurranno elementi genuini è un'altra questione.)
Tutto questo non significa che realismo fotografico e arte reciprocamente si escludano. Ma se i film che realmente fan vedere ciò che descrivono sono arte, sono comunque un'arte particolare. In realtà, insieme alla fotografia, il cinema è l'unica arte che presenti il materiale grezzo. L'arte che troviamo nei film cinematografici nasce dalla capacità del loro autore nel leggere il libro della natura. Il cineasta ha qualcosa del fantasioso lettore o dell'esploratore animato da un'insaziabile curiosità. Per ripetere qui una definizione già data è «uno che si mette a raccontare una storia, ma, nel riprenderla, è a tal punto sopraffatto dal desiderio di comprendere tutta la realtà fisica — e anche dalla sensazione di doverla comprendere per poter raccontare la storia, qualsiasi storia, in termini cinematografici — che s'avventura sempre più profondamente nella giungla dei fenomeni materiali in cui rischia di perdersi irrimediabilmente quando non riesca, in virtù di grandi sforzi, a ritornare alla via maestra che ha abbandonato».

Momenti della vita quotidiana
Lo spettatore che va al cinema vede le immagini sullo schermo in uno stato quasi di sogno. Si può quindi supporre che apprenda la realtà fisica nella sua concretezza; per essere precisi, fa l'esperienza d'un fluire di avvenimenti casuali, di oggetti sparsi, di forme senza nome. Nelle sale di proiezione, esclama Michel Dard, «siamo fratelli delle piante velenose, dei ciottoli...».3 Dall'interesse del cinema per le minuzie fisiche, come pure dalla decadenza dell'ideologia, deriva inevitabilmente che i nostri spiriti, cosi fratturati, non assorbano tanto il tutto quanto «piccoli momenti della vita materiale» (Balazs). Ora, la vita materiale può essere parte e sostanza delle varie dimensioni della vita in generale. Ma, ci si chiede, «i piccoli momenti» a cui ci abbandoniamo dimostrano un'inclinazione naturale per una particolare orbita della vita?
Nei film a soggetto queste piccole unità sono elementi di trame che possono estendersi in tutte le orbite immaginabili. Possono cercare di ricostruire il passato, indulgere a fantasie, farsi campioni d'una fede o descrivere un conflitto individuale, una strana avventura, o altre cose. Consideriamo un elemento qualsiasi di simile tipo di film. Esso contribuisce senza dubbio allo svolgimento della storia, ma ci colpisce anche notevolmente, o addirittura fondamentalmente, come semplice frammento della realtà visibile, circondato, per cosi dire, da un alone di significati visibili indeterminati. In questa qualità il frammento si libera dal conflitto, dalla fede, dall'avventura verso cui converge l'insieme della storia.
Un volto sullo schermo può attirarci come manifestazione singolare di paura o di felicita indipendentemente dagli avvenimenti che ne motivano l'espressione. Una via che serve come sfondo a una lite o a una storia d'amore può venire a un tratto in primo piano producendo un effetto inebriante. Strada e volto si aprono allora su una dimensione assai più ampia di quella degli intrecci che sostengono. >
Questa dimensione si estende, per cosi dire, sotto la sovrastruttura dei contenuti d'una storia specifica; è composta di momenti alla portata di chiunque, momenti comuni come la nascita e la morte, o come un sorriso o «il fruscio delle foglie mosse dal vento». Certo, dice Erich Auerbach, quel che accade in ciascuno di questi momenti «riguarda in modo personalissimo gli individui che li vivono, ma riguardano anche (e proprio per questa ragione) le cose elementari che gli uomini hanno in genere in comune. E’ proprio quel momento casuale relativamente indipendente dagli ordini controversi e instabili per cui gli uomini lottano e si disperano; scorre senza esserne turbato, come la vita quotidiana.»4
Anche se questa acuta osservazione si riferisce al romanzo moderno, non è pero meno valida per il cinema; quando si eccettui il fatto, trascurabile in questo contesto, che gli elementi del romanzo implicano la vita dello spirito in modi negati al cinema. Si noti che il casuale riferimento di Auerbach alla «vita quotidiana» ci offre una chiave importante per capire. I piccoli momenti casuali che riguardano le cose comuni a voi e a me e a tutto il resto degli uomini, costituiscono la dimensione della vita quotidiana, questa matrice di tutti gli altri modi di realtà. Ed è una dimensione molto sostanziosa. Se lasciamo da parte per un momento le credenze articolate, gli obiettivi ideologici, i progetti particolari, e simili, rimangono ancora i dolori e le soddisfazioni, le discordie e le feste, i bisogni e le ricerche che costituiscono il mestiere della vita ordinaria. Prodotti dall'abitudine e da azioni reciproche microscopiche, formano un tessuto elastico che cambia lentamente e sopravvive a guerre, epidemie, terremoti e rivoluzioni. I film tendono a esplorare questo tessuto della vita quotidiana, la cui composizione varia a seconda del posto, della gente, del tempo. Ci aiutano quindi non soltanto ad apprezzare l'ambiente materiale dato, ma a estenderlo in tutte le direzioni. Fanno virtualmente del mondo la nostra casa.
E’ una cosa riconosciuta sin dai primi tempi del cinema. Il critico tedesco Herman G. Scheffauer prediceva gia nel 1920 che attraverso il cinema l'uomo «arriverà a conoscere la terra come la propria casa, anche senza mai uscire dagli angusti confini del suo villaggio».5
Oltre trent'anni dopo, Gabriel Marcel si esprimeva in termini analoghi. Attribuiva al cinema, specialmente al documentario, il potere di approfondire e rendere più intimo «il nostro rapporto con questa Terra che è la nostra dimora». E aggiungeva: «A me, sempre pronto a stancarmi di ciò che vedo abitualmente - e che in realtà non riesco più a vedere — questa capacità particolare del cinema appare letteralmente redentrice [salvatrice].»6
Prova materiale
Facendoci conoscere il mondo in cui viviamo, il cinema mette in mostra fenomeni la cui comparsa sul banco dei testimoni ha una particolare importanza. Ci costringe ad affrontare faccia a faccia le cose di cui abbiamo paura. E ci sfida spesso a confrontare gli avvenimenti reali che ci presenta con l'idea che comunemente ce ne facciano.

La testa di Medusa
Abbiamo imparato a scuola la storia della Gorgone Medusa dal volto così orribile, coi denti enormi e la lingua sporgente, che bastava la sua vista per tramutare in pietre uomini e animali. Quando Atena istigò Perseo a uccidere il mostro, lo avvertì di non guardarlo mai direttamente in faccia, ma soltanto riflesso nello scudo lucente ch'ella gli aveva donato. Seguendo il suo consiglio, Perseo tagliò la testa della Medusa con la falce, datagli da Ermete.7
La morale del mito è naturalmente che noi non vediamo, e non possiamo vedere le cose veramente orride perché la paura ci paralizza e ci rende ciechi; potremo sapere che aspetto hanno soltanto guardando immagini che ne riproducono fedelmente l'aspetto. Queste immagini non hanno nulla in comune con le immaginose raffigurazioni che ci dà l'artista di un terrore non visto, ma assomigliano al riflesso d’uno specchio. Ora, di tutti i mezzi esistenti, il cinema soltanto rispecchia veramente la natura. Ecco perchè ne dipendiamo per vedervi riflesse cose che ci trasformerebbero in pietra se mai le incontrassimo nella vita reale. Lo schermo cinematografico è il lucido scudo di Atena.
Ma questo non è tutto. Il mito indica anche che le immagini sullo scudo o sullo schermo sono mezzi rivolti a un fine: debbono permettere — o, per estensione, indurre - lo spettatore a decapitare l'orrenda cosa che vede rispecchiata. Proprio per questo tanti film di guerra indulgono alle scene di crudeltà. Ma servono questi film allo scopo? Nel mito stesso la decapitazione di Medusa non significa ancora la fine del suo regno. Ci dicono che Atena fissò la terribile testa sul suo scudo per gettare il terrore tra i nemici. Perseo, che ne aveva vista l'immagine, non riuscì a distruggerne completamente lo spettro.
Ci si chiede quindi se ha un senso cercare il significato di immagini d'orrore nelle intenzioni sotterranee o nei loro vaghi effetti.
Si pensi a Le sang des betes di Georges Franju, documentario su un mattatoio di Parigi: pozzanghere di sangue qua e la sul pavimento mentre si uccidono metodicamente cavalli e buoi; una sega smembra i corpi degli animali ancora caldi di vita; e c'è un'insondabile inquadratura di teste di vitello disposte in una specie di rozzo disegno da cui esala la serenità d'un ornamento geometrico. Sarebbe assurdo sostenere che queste immagini insopportabilmente deprimenti intendano predicare il vangelo del vegetarianesirno; ne le si può d'altra parte denunciare come un tentativo di soddisfare l'oscuro desiderio umano di distruzione.
Le cose orrende riflesse nello specchio sono fine a se stesse. Come tali, invitano lo spettatore ad accoglierle integrando così nella propria memoria il volto reale delle cose, troppo terribile per essere visto nella sua realtà. L'esperienza visiva delle file di teste di vitello o dei corpi umani torturati, che facciamo assistendo ai film sui campi di concentramento nazisti, riscatta l'orrore dalla invisibilità a cui lo condannano il panico e la fantasia. E questa esperienza è liberatrice perchè rimuove un potentissimo tabù. Forse il maggior merito di Perseo non fu di tagliare la testa di Medusa, ma di superare le proprie paure e guardarne il riflesso nello scudo.
E non fu proprio quest'atto di coraggio che gli permise di decapitare il mostro?

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Da S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, ed. Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 430-436. (I ed. Oxford University Press, New York 1960)
In alto: T. Catalano, azione programmata e attuata al cinema Farnese di Roma,e Sequenza dal film Le sang des betes

1 - Citato da Agel, Du film en form de chronique, in Astre, ed., Cinéma et roman, p. 155.
2 - Bachmann, Intervista con Fellini, in “Film”, 1961, p. 70.
3 - Dard, Valeur humaine di cinéma, p. 15
4 - Auerbach, Mimesis
5 - Scheffauerm The vifyng of space, in “The Freeman”, 24 nov. E 1 dic. 1920.
6 - Marcel, Possibilités et limites de l’art cinématographique, in “Revue internazionale de filmologie, vol. V, nn, 18-19, lugl.-dic. 1954, p. 164.
7 - Si veda Graves, The Greek  Mythes.